venerdì 7 giugno 2013

BERGSON


BERGSON


Il punto centrale del pensiero di Bergson è il concetto di tempo. In particolare, Bergson s'impegna a distinguere diversi tipi di tempo.

Esiste per esempio il TEMPO DELLA SCIENZA. Esso è quantitativo a calcolabile, perché mostra soltanto una porzione dello spazio reale. È anche reversibile, perché ogni esperimento scientifico può essere riprodotto più volte. Questo significa che si può utilizzare un determinato lasso di tempo per fare qualcosa che si ha già fatto.
Secondo Bergson, l'idea del tempo scientifico va rifiutata proprio perché spazializzato: a ogni secondo corrisponde a una determinata misura di spazio.

TEMPO DELLA COSCIENZA

Corrisponde a una successione di stati qualitativi della coscienza, in cui ogni istante è diverso dagli altri. Il tempo non può essere misurato, in questo caso, in quanto è un flusso continuo e inarrestabile composto da istanti diversi ma strettamente connessi. Infine, a differenza di quello scientifico, il tempo della coscienza non è reversibile. Essendo il tempo della coscienza è ovviamente individuale, e quindi è soggettivo. Ogni individuo ha naturalmente una concezione diversa di tempo, lo percepisce in modi differenti. Un'ora può quindi durare un minuto, in apparenza, mentre un secondo può essere lungo come un secolo se per esempio l'individuo si trova in una situazione poco piacevole.
Inoltre, il tempo della coscienza è imprevedibile e in continuo mutamento. Pensare di poterlo riavvolgere sarebbe come pensare di riavvolgere al vita stessa. In ogni istante infatti convivono passato, presente e futuro, e tutto ciò non può essere riprodotto più di una volta proprio perché ci sono troppe possibilità, troppi particolari che dovrebbero essere ricreati

KIERKEGAARD




KIERKEGAARD



Secondo Kierkegaard la dimensione esistenziale dell'uomo è segnata dall'angoscia, dalla disperazione e dal fallimento. La disperazione nasce da un rapporto serio dell'uomo con sé stesso, mentre l'angoscia nasce da un rapporto serio dell'uomo con il mondo, e consiste nel senso di inadeguatezza che nasce dall'impossibilità dell'uomo di essere autosufficiente senza Dio.
Kierkegaard pone perciò un primo elemento, quello dell'individualità, che caratterizza tutte le forme di esistenzialismo, e un secondo, quello del rapporto con Dio, che è tipico di tutte le forme religiose di esistenzialismo.

L'ESISTENZA COME POSSIBILITA' E FEDE

Una prima caratteristica dell'opera di Kierkegaard è di aver cercato di ricondurre la comprensione dell'intera esistenza umana alla categoria della possibilità e di aver messo in luce il carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale.

Che vuol dire?

Ogni possibilità può essere “possibilità che sì” o “possibilità che non”: implica la nullità possibile di ciò che è possibile, quindi la minaccia del nulla. In poche parole, Kierkegaard sembrava essere terrorizzato dall'idea di incombenti possibilità alternative rispetto a ciò che era successo nella sua vita. Probabilmente pensava sempre cose tipo “Ok, mi sono fidanzato. Però sarebbe potuta andare diversamente, magari sarei morto prima di incontrarla oppure potrei morire adesso o lei potrebbe lasciarmi ecc”.
La condizione di incertezza di fronte alle possibilità porta l'uomo all'angoscia. Subentra l'angoscia quando si scopre che tutto è possibile. Se tutto è possibile, allora niente lo è. Tutto questo è riconducibile ad Adamo, che prima di sapere di avere la scelta di peccare era innocente. Poi si è sentito angosciato perché ha capito di avere un'alternativa alla vita che aveva condotto fino a quel momento (cioè quando Dio gli vieta di mangiare la mela).

Nelle ultime pagine del Concetto dell'angoscia, Kierkegaard descrive la figura del discepolo dell'angoscia, ovvero chi sente in sé le possibilità annientatrici che ogni alternativa dell'esistenza prospetta.

UNA SECONDA caratteristica è il suo sforzo costante di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all'uomo, gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternative dell'esistenza e tra cui l'uomo è generalmente condotto a scegliere. Lui però non sceglieva: dinnanzi a ogni alternativa,s i sentiva paralizzato. La sua attività fu prettamente contemplativa e accentuò il distacco tra sé e le le forme di vita che descriveva attraverso molti pseudonimi.

UNA TERZA caratteristica è il tema della FEDE. Soltanto nel cristianesimo egli vide un'ancora di salvezza, perché credeva che la fede potesse sottrarre l'uomo all'angoscia e alla disperazione, che costituiscono l'esistenza.





L'ANGOSCIA E LA DISPERAZIONE E LA FEDE

L'angoscia nasce dal rapporto dell'uomo con il mondo esterno. Con tutte le sue possibilità, infatti, il mondo lo spaventa e lo rende incerto.
La disperazione nasce invece dal rapporto dell'uomo con se stesso, con la sua interiorità. La disperazione è inerente alla personalità stessa dell'uomo. Disperazione e angoscia sono quindi parti fondamentali e incancellabili dell'essenza dell'uomo, e sono entrambe generate dalla struttura problematica dell'esistenza umana.
La disperazione è strettamente legata alla natura dell'io. Difatti può volere (o non volere) essere se stesso. Nel primo caso, l'uomo non arriverà al traguardo in quanto sarà sempre finito, insufficiente a se stesso. Se invece cerca di rompere il rapporto con sé, va contro una parte costitutiva della sua essenza e quindi anche questo tentativo è impossibile. La disperazione quindi è la malattia mortale, perché è il vivere la morte dell'io: è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell'io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta.
La possibilità è l'unico rimedio alla disperazione, perché se a un disperato vengono offerte delle possibilità (anche solo basate sulla fantasia e non su qualcosa di concreto), allora si riprende un po'.
Per questo, l'antidoto dell'uomo è Dio. La fede è l'eliminazione della disperazione, la condizione in cui l'uomo non si illude della sua autosufficienza ma riconosce la dipendenza da Dio.


LA VERITA' DEL SINGOLO

Hegel aveva fatto dell'uomo un genere animale perché solo negli animali il genere è superiore al singolo. Kierkegaard invece sostiene che, per quanto riguarda il genere umano, il singolo è superiore al genere. Questo è, secondo Kierkegaard, l'insegnamento fondamentale del cristianesimo, ed è il punto su cui bisogna insistere per combattere la filosofia hegeliana (che invece esalta l'oggettività della riflessione). Kierkegaard considera infatti fondamentale per il suo compito inserire la persona singola, con tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica.

Kierkegaard, al contrario di Hegel, riconosce l'importanza dell'esistenza soggettiva, che pone l'uomo al di fuori dal contesto universale in cui è inserito. L'universalità è astratta, il singolo (con i suoi pensieri e la sua soggettività) è concreto.


LA VITA ESTETICA E LA VITA ETICA

Kierkegaard identifica due stadi fondamentali della vita: la vita estetica e la vita morale.

Lo stadio estetico è la forma di vita di chi insiste nell'attimo, fuggevolissimo e irripetibile. L'esteta è colui che vive poeticamente, colui che può trovare nella vita ciò che vi è di interessante. Così l'esteta vive in un mondo luminoso, in uno stato di ebrezza intellettuale continua. La vita estetica esclude la ripetizione, che implica monotonia. È rappresentata dal Don Giovanni, protagonista del Diario di un seduttore. Ma la vita estetica rivela la sua insufficienza e la sua miseria nella noia. Chiunque viva esteticamente, è disperato: la disperazione è l'ultimos bocco della concezione estetica della vita. Essa è l'ansia di una vita diversa che si prospetta come possibile.

La vita etica nasce con un salto oltre l'esteticità. Ciò implica una stabilità e una continuità che la vita estetica non può includere. La vita etica è il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stessi.
Nella vita etica ogni singolo di sottopone a una forma, si adegua all'universalità, mentre in quella estetica è soltanto se stesso. La vita etica è incarnata dal marito, in quanto il matrimonio è l'espressione tipica dell'eticità. Inoltre la persona vive del duo lavoro. Il lavoro, essendo una vocazione, dà piacere. La vita etica si fonda sulla ripetitività della scelta dell'uomo,c he sceglie di scegliere aumentando le responsabilità rispetto alla sua libertà. Sceglie di impegnarsi in un compito e di restarvi fedele.
Anche la vita etica è votata al fallimento, perché l'uomo si pente della sua scelta finita, insufficiente. Per questo non rimane che dedicarsi alla vita religiosa.
L'etica pura, che ci propone degli ideali assoluti difficili da realizzare, ci dice che dobbiamo essere sempre insoddisfatti di noi stessi, che non c'è niente nella nostra vita che sia interamente buono. Ma il pentimento può paralizzare e lasciare scoraggiati. Si può superare questa paralisi spirituale con l’esperienza religiosa, cioè accettando per fede che, malgrado le nostre debolezze, Dio è comunque in grado di cancellare i nostri peccati e di redimerci. Così il pentimento ci prepara per il salto nello stadio religioso.




MARX

 

MARX


Marx è un filosofo che abbiamo studiato sotto diversi punti di vista. Per esempio, dopo aver preso confidenza con il suo pensiero in campo prettamente teorico e filosofico, ne abbiamo conosciuto gli effetti concreti sulla società. Nel corso del Novecento, infatti, il pensiero marxista ha influenzato profondamente la vita politica e sociale dell'Europa, a partire dalla creazione di partiti socialisti fino ad arrivare alla dittatura stalinista.
Ma veniamo al dunque. Trovo che il pensiero di Marx sia molto interessante, e sicuramente innovativo se si pensa all'epoca in cui si è sviluppato. Epoca alla quale, in ogni caso, è strettamente collegato.
A mio parere, Marx era un osservatore molto attento. Ha osservato la società, i problemi nati dall'impianto capitalistico del sistema e dalla rivoluzione industriale. Ha visto uomini schiacciati dal lavoro, immersi in una dimensione alienante che mai prima di allora avevano conosciuto, operai che spendevano tutte le loro forze senza ricavarne abbastanza. Ed è allora che ha deciso che bisognava cambiare le cose. Dal tentativo di risolvere i problemi di una società soffocata da un sistema economico sbagliato, è nato quindi il Capitale, la sua opera più conosciuta.

ELEMENTI PRINCIPALI DEL PENSIERO MARXISTA:

  • Il lavoro degli operai è alienante.

Un tempo, i lavoratori producevano artigianalmente prodotti finiti che sentivano propri e nei quali potevano riconoscersi. Il lavoro, in questo caso, era soddisfacente, perché gli artigiani avevano la possibilità di vedere i frutti della loro fatica e di mettere del proprio nelle loro creazioni.
Ora, con l'avvento delle fabbriche, il sistema di produzione è cambiato. Ogni operaio svolge un singolo compito ripetitivo, non è che una piccola parte di un immenso ingranaggio. In questo modo, non ha la possibilità di riconoscersi in ciò che produce. Non può nemmeno vedere i prodotti finiti, perciò i suoi sforzi risultano, a livello individuale, privi di scopo. Da qui nasce l'alienazione: sentirsi nient'altro che un tassello, costretti a ripetere lo stesso gesto per ore e ore senza poter fare ricorso a un minimo di creatività. Il prodotto finito, poi, appartiene non al singolo operaio, ma al sistema. Il lavoratore si ritrova quindi a cedere se stesso senza ricavarne niente di niente.

  • La classe operaia rivoluzionerà il sistema.

Negli operai, Marx vede coloro che cambieranno la società. Era infatti certo del bisogno di una rivoluzione proletaria che avrebbe distrutto il sistema capitalistico.

  • Bisogna abolire la disparità tra le classi sociali.

Naturalmente, lottando per i diritti del proletariato, Marx intendeva costruire un sistema basato sull'uguaglianza tra gli uomini. Questo sistema doveva essere “comunista”, e il suo avvento avrebbe conciso con la liberazione dell'umanità dall'alienazione.

  • Occorre abolire la proprietà privata.

La proprietà privata è il simbolo dell'alienazione umana. Se ogni persona possiede qualcosa, è naturale che qualcuno possieda più di altri. Da qui, la formazione delle classi sociali. Per abolire le disparità tra le classi, quindi, è fondamentale abolire la proprietà privata.

  • Collettivizzazione

Per abolire la proprietà privata, ogni industria dev'essere posta sotto il controllo dello Stato. Lo Stato, in seguito, dovrebbe ridistribuire i guadagni in modo equo.

domenica 12 maggio 2013

FEUERBACH

Uno degli argomenti che abbiamo trattato quest'anno alla quale mi sono interessata di più è di sicuro la critica che Feuerbach muove nei confronti della religione. Mi interessa molto il suo voler collegare la teologia all'antropologia, specilmente perché è un punto di vista che non avevo mai considerato prima.

In breve, quello che Feuerbach sostiene è: "Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea Dio." Che cosa significa? Bé, è più semplice di quanto si possa pensare all'inizio. Feuerbach identifica Dio non come un essere superiore e onnipotente dotato di vita propria, ma come la PROIEZIONE DELL'UOMO. Dio è infatti la proiezione delle qualità più lodevoli che caratterizzano gli esseri umani, qualità che vengono impersonificate da una figura totalmente e indiscutibilmente immaginaria.
Inotre, dato che molto spesso l'uomo vuole ottenere cose che non può raggiungere, nella divinità tutti i suoi desideri appaiono realizzati. Gli esseri umani si sentono limitati, incapaci di raggiungere certi obiettivi, perciò creano una divinità che sia onnipotente, e che abbia perciò il potere di compiere tutto ciò che per loro, che al contrario sono semplici persone, risulta impossibile.
Tutto questo discorso porta alla tesi dell'ALIENAZIONE RELIGIOSA. Secondo Feuerbach, la religione è una forma di alienazione. L'uomo, infatti, dà vita alle divinità scindendosi da quelle che sono le sue più alte qualità per attribuirle alle figure onnipotenti e superiori di cui arricchisce il suo immaginario. Facendo questo, si sottomette a tali figure, spesso in modi umilianti e negativi, decide di compiere rinunce e sacrifici in nome di una creatura superiore che in realtà non è altro che la sua stessa proiezione. Sono dell'idea che questa teoria sia veramente interessante e originale, anche se inquietante. Insomma, in nome della religione sono stati compiuti atti terribili: guerre, persecuzioni, massacri...Sarebbe già folle pensare che tutto ciò sia stato compiuto per assecondare un qualche Dio (il quale non credo che sia stato felice di vedere le sue creature ammazzarsi brutalmente in suo nome), ma pensare che l'uomo abbia compiuto atti di una tale crudeltà per compiacere una figura del tutto immaginaria che in realtà non esiste sarebbe ancora più tragico.
Questa, in fin dei conti, è la conclusione alla quale arriva Feuerbach: l'uomo ama Dio e disprezza sé stesso e il mondo terreno, senza sapere che in realtà Dio è l'uomo. Le qualità che Dio possiede sono infatti propriamente umane, ma questo l'uomo non riesce a capirlo e quindi si denigra, ponendosi di sua spontanea volontà su un piano infinitamente più bassa, svilendosi e disprezzandosi. Dice Feuerbach: "La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull'abbassamento dell'uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull'umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana".
Se soltanto l'uomo smettesse di disprezzare il mondo terreno e di adorarne uno che per il momento nessuno di noi può vedere nè toccare, si accorgerebbe di quanto in realtà gli individui siano speciali. La specie umana mostra molto spesso tratti negativi: crudeltà, invidia, avarizia, egoismo...Ma credo che allo stesso tempo esistano in noi qualità ammirevoli che sono abbastanza potenti da permetterci di vivere sentendoci esseri meritevoli, giusti, pieni di potenziale. Come sostiene Feuerbach, l'uomo dovrebbe amare sè stesso. Solo amndo sè stesso può giungere ad amare il mondo, con tutte le sue meraviglie. Deve ricercare in sè quelle qualità che per ora attribuisce soltanto a Dio. Sfruttandole, potrà rendere il mondo un po' migliore.

Secondo Feuerbach, comunque, la vera soluzione all'alienazione religiosa sarebbe una soltanto: l'ATEISMO. Secondo il suo punto di vista, esso sarebbe addirittura un dovere morale. Il compito della filosofia sarebbe quello di risolvere l'uomo in Dio, e di trasformare l'uomo nella nuova divinità.

venerdì 23 novembre 2012

Friedrich Nietzsche

Ho conosciuto le opere di Friedrich Nietzsche un anno fa, quando ho cominciato a leggere "Umano, troppo umano". Inizialmente credevo che arrivare al termine del libro sarebbe stato faticoso (se non addirittura noioso), ma mi sono dovuta ricredere. Le sue parole mi hanno colpito molto, e ora cercherò di spiegare perché, attingendo anche dalle spiegazioni che ho trovato sul libro di filosofia che usiamo a scuola.
La prima fase dell'opera di Nietzsche riguarda i suoi scritti giovanili, tra cui il più importante è forse "La nascita della tragedia". Leggendo una di queste opere, possiamo facilmente  notare l'influenza di Schopenauer, autore che Nietzsche impara a conoscere e ad apprezzare dopo la lettura di "Il mondo come volontà e rappresentazione".

"La nascita della tragedia" è, a mio parere, un'opera molto interessante e originale perché utilizza la tragedia greca per descrivere gli impulsi che animano lo spirito dell'uomo. Essa si basa, infatti, sulla distinzione tra "apollineo" e "dionisiaco". L'apollineo è un atteggiamento di fuga di fronte al divenire e Nietzsche lo paragona alle equilibrate e limpide forme della scultura greca antica. Il dionisiaco è il contrario: è la forza vitale, la partecipazione al divenire e si esprime con la musica.
Una cosa che mi è parsa interessante riguardo a questi concetti è che Nieztzsche, andando contro il pensiero dominante che descrive la civiltà greca antica come estremamente equilibrata e serena, afferma invece che essa era caratterizzata da un atteggiamento dionisiaco nei confronti della vita: i Greci infatti erano consapevoli degli aspetti negativi e crudeli della vita, ed è per questo che mettevano in scena le tragedie. Riuscivano a scorgere ovunque il dramma, la futilità, la caducità dell'esistenza umana. Proprio per questo, si rende conto Nietzsche, i Greci inventarono gli Dei: avevano bisogno di una convinzione che facesse loro credere di essere in qualche modo protetti, di avere uno scopo. Ma le convinzioni (soprattutto quelle religiose) non sono altro che gigantesche illusioni che l'uomo utilizza per rendere accettabile la vita, crudele e dolorosa.
In ogni caso, Nietzsche era convinto che l'atteggiamento ottimale da assumere di fronte alla durezza dell'esistenza fosse quello dionisiaco. L'unico modo per sopportare la triste realtà è l'accettazione della vita, e Dioniso è il dio che incarna le passioni, le risa, l'ebrezza. In questo caso, pur ispirandosi a Schopenauer per quanto riguarda la concezione pessimistica dle mondo, Nietzsche contesta la soluzione proposta dall'altro filosofo, ovvero quella di cancellare la volontà di vivere. Al contrario, intende accettare la vita, addirittura esaltarla.  

Il secondo periodo dell'opera di Nietzsche è quello "illuministico". Ha preso questo nome non perché si ispira all'Illuminismo settecentesco, ma perché il filosofo era convinto che l'uomo potesse operare un'analisi critica della cultura attraverso la scienza (che in questo caso è intesa come metodo di pensiero in grado di rischiarare la mente degli uomini dagli errori a cui essa è soggetta). 
I due concetti principali di questo periodo sono "lo spirito libero"e "la filosofia del mattino". Lo spirito libero è l'uomo che riesce a liberarsi dall'oscurità del passato e crea una filosofia nuova, non soggetta a regole precostruite ma del tutto libera.

La morte di Dio è un altro concetto che mi ha affascinato. La visione del mondo che Nietzsche descrive in questo caso, così cruda e pessimistica, mi ha fatto riflettere molto. In poche parole, il filosofo spiega che tutto ciò in cui crediamo (convinzioni religiose innanzitutto) non è che una grande illusione. Siamo abituati a pensare che il mondo sia un luogo governato da leggi benefiche o che esista un Dio che si prende cura di noi o semplicemente che l'universo si retto dall'equilibrio e dalla logica. Ebbene, non è così. Ogni convinzione non è che un modo che gli uomini hanno inventato per sopportare la verità: non esiste nessuno scopo, nessun ordine, nessuna sicurezza. L'umanità è in balia di un cosmo basato sul caos e fa di tutto per non pensarci.
Dio, in questo quadro generale, è la figura che raggruppa in sè ogni genere di credenza illusoria. Con la frase "Dio è morto e siamo stati noi ad ucciderlo", Nietzsche intende dire che, lentamente, gli uomini cominciano ad accorgersi della dura verità e la forza delle convinzioni va scemando.
Credo che questo pensiero sia molto interessante. I nostri genitori, gli insegnanti, tutti ci insegnano a pensare che ci sia qualcosa di logico nella nostra vita. Ma se davvero non fosse così? Se ogni rassicurazione non fosse che un'illusione? Se noi stessi non avessimo nessun destino, nessuno scopo? è abbastanza impressionante, a pensarci bene, ma è una riflessione con cui prima o poi bisogna confrontarsi.

Durante il cosiddetto "periodo di Zarathustra", Nietzsche delinea la figura del superuomo. Il superuomo è una sorta di soggetto ideale che, una volta scoperta la morte di Dio, la supera e la accetta così come accetta la dura verità del mondo. Un'idea che mi ha colpito è che, secondo Nietzsche l'uomo può diventare superuomo solo dopo essere passato sul cadavere di tutte le divinità". Mi sembra un'idea un po' azzardata, perché uccidere ogni illusione sarebbe come perdere completamente la speranza verso il mondo e la vita.